“Sono qui per
imparare". "Mi piace diventare studente. Per giudicare bisogna partire da uno stato vergine, bisogna isolarsi come capita sempre al regista che si trova sulla punta di una piramide e non ha nessuno con cui condividere le cose".
Parola del celebre regista Alexander Samuel Mendes, noto
come Sam Mendes, che torna a Venezia
in occasione della 73° edizione del Festival. Stavolta, però, come presidente
della giuria che dovrà assegnare il tanto agognato Leone d’Oro. Eppure, al famoso
regista britannico possono essere attribuiti diversi titoli fuorché quello di
studente. Sarà, forse, perché il suo rapporto intimo con Venezia è nato quando
aveva solo 18 anni che Mendes paragona se stesso a uno studente.
In una recente intervista rilasciata a laRepubblica,
infatti, Mendes racconta del suo incarico al Guggenheim Museum di Venezia, durato
quattro mesi e svolto quando era appena maggiorenne. Ai tempi, gli era stato
assegnato il compito di controllare alcune opere di Jackson Pollock che tornavano
al museo del capoluogo veneto dopo essere state esposte in una mostra a New
York.
Il regista Sam Mendes |
Da allora, Mendes, ne ha fatta di strada. Prima in teatro. Poi
nel cinema. Dopo gli studi universitari a Cambridge si unì al Chichester
Festival Theatre fino a diventare direttore teatrale alla Royal Shakespeare Company. Da ricordare, la sua direzione per "The Cherry Orchard" con Judi Dench che
gli valse il Critics Circle Award come miglior esordiente.
E sempre come esordiente vide assegnare ben cinque Oscar,
tra cui quelli prestigiosi di Miglior Film e Miglior regista, al suo primo
lungometraggio “American Beauty” del
1999. Evento davvero raro nella storia degli Oscar.
Ad “American Beauty” seguono altri sei film di successo, sempre
diretti da Mendes: Era mio padre (2002), Jarhead (2005), Revolutionary Road
(2008), American Life (2009) e i due fortunati capitoli della saga di James
Bond con Daniel Craig “Skyfall” (2012) e “Spectre” (2015).
Ma è il suo prossimo film ora in gestazione, tratto dal recente
libro “The Voyeur’s Motel” scritto
dal giornalista americano Gay Talese, a suscitare molte aspettative. Di certo
non sarà semplice raccontare la storia (vera?) di un uomo che passò la vita a
osservare i clienti del suo motel mentre facevano sesso attraverso un finto
condotto di aerazione insonorizzato che scorreva lungo i soffitti di tutte le
stanze e comunicanti da grate attraverso cui spiare i clienti. Ma gli occhi di Gerald
Foos (questo il nome del voyeur titolare dell’albergo) non videro solo sesso.
Inaspettato testimone di un omicidio consumato a causa di attività criminali
legate allo spaccio di droga, Foos non rivelò mai alla polizia di aver
assistito all’omicidio. Lo rivelò, invece, al giornalista Gay Talese, nel corso
dei loro lunghi contatti epistolari e nei diversi incontri che avvennero tra i
due a partire dagli anni ’80. Di tutti i racconti e rivelazioni che Foos fece
negli anni, Talese ne ha fatto un libro di recentissima pubblicazione.
Illustrazione del New Yorker per l'articolo di Gay Talese |
Un testo molto dibattuto
e controverso. Intanto perché sono stati sollevati dubbi sulla veridicità
di tutti i fatti rivelati da Foos a Talese (soprattutto quello dell’omicidio).
In secondo luogo, sono state sollevate questioni etiche riguardanti la
professione giornalistica. E’ eticamente corretto rivelare quanto scoperto solo
dopo diversi anni dal loro accadimento, omicidio compreso? Gay Talese, che
raccolse tutto il materiale da Foos in cambio del suo anonimato, non si rivolse
alla polizia subito dopo aver appreso dell’omicidio, anche se il delitto era
stato consumato ormai sei anni prima.
Solo adesso, a distanza di anni, Talese ha rivelato ogni
cosa e solo dopo che, nel 2013, l’ormai 78enne Foos si sentì pronto a rendere
pubblica la sua storia. Qual è il limite tra la segretezza della fonte, la responsabilità
giornalistica e il dovere di denunciare alle autorità i crimini di cui si viene
a conoscenza?
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